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  • Immagine del redattoreFrancesco Loffredo

Video-games or Violent-games?

Aggiornamento: 11 mag 2020

I videogiochi stanno diventando sempre più centrali come strumento di intrattenimento, soprattutto perché al giorno d’oggi è molto più semplice, rispetto ad una decina di anni fa, decidere di fare una partita durante una pausa caffè, o mentre si aspetta il proprio turno in una sala d’attesa: insomma, per tuffarsi anche solo per pochi minuti nel mondo virtuale, è sufficiente avviare una delle tante applicazioni presenti sul nostro smartphone.

Tuttavia, sebbene i videogiochi si siano costantemente evoluti negli ultimi decenni, ancora sopravvivono alcun stereotipi legati al mondo del gaming, il più famoso dei quali può essere riassunto nella semplice (forse fin troppo) equazione: videogiochi = violenza.

Non a caso ho usato la parola “stereotipo”:

la psicologia sociale definisce questo termine come una “generalizzazione semplicistica, relativa ad un gruppo di persone (o di cose in questo caso), che consiste nell’assegnazione di caratteristiche identiche a tutti i membri del gruppo, in conformità con i propri pregiudizi” (Aronson, 2006).

Questa definizione è molto importante, se si considerano i risultati di uno studio di Przybylski - psicologo sperimentale e Director of Research presso l’Oxford Internet Institute - in cui si è cercato di indagare se le credenze negative relative ai videogiochi fossero o meno legate all’età delle persone e alla presenza o assenza di esperienze dirette con questo tipo di strumenti. I risultati emersi sono molto interessanti:


1) All’interno del campione selezionato dagli studiosi, si è evidenziato come i partecipanti più vicini ai 65 anni abbiano minori probabilità di avere esperienza diretta con i videogiochi (o anche nessuna in alcuni casi) rispetto alla loro controparte più giovane; nello stesso tempo, sostengono molto più fermamente che il gaming sia collegato a comportamenti aggressivi.


2) I partecipanti più giovani, al contrario, hanno avuto diverse esperienze di gaming (anche recenti rispetto al periodo della sperimentazione), e mostrano di credere molto meno allo stereotipo sopra citato.

Cosa ne deduciamo?

Sembra che l’esperienza diretta e concreta, aumentando la conoscenza dello strumento, aiuti a contrastare lo stereotipo, che si basa, per l’appunto, su una conoscenza scarsa e approssimativa dello stesso.

Qualunque videogiocatore o appassionato del settore potrebbe affermare senza esitazione che esistono tantissimi generi di videogiochi: infatti, non ha senso parlare di una categoria specifica di videogames “violenti”. È vero che in alcuni casi sono presenti anche contenuti che rimandano in modo più o meno diretto al tema della violenza, ma è più corretto ed onesto affermare che la violenza sia solo uno dei tanti aspetti presenti in questi prodotti e non un’enorme etichetta in grado di descriverli a 360 gradi. Inoltre, per comprendere questi contenuti, è necessario studiarli ed analizzarli all’interno del contesto in cui sono inseriti.

Ma cosa si intende per violenza o aggressività?

Si definisce azione aggressiva qualsiasi comportamento intenzionale che mira a provocare dolore a livello fisico o psicologico (Aronson, 2006).

Secondo la teoria dello psicologo sociale Leonard Berkowitz, l’aggressività umana è in parte istintiva (è stata mantenuta dall’evoluzione in quanto fondamentale ai fini della sopravvivenza), ma gli esperimenti dello psicologo cognitivista Richard Nisbett hanno anche dimostrato che esistono fattori situazionali e socio-culturali che possono avere un grosso peso nella messa in atto di condotte aggressive.

Data la molteplicità dei fattori in gioco, è semplice intuire come l’aggressività non sia facilmente misurabile in laboratorio.

Infatti, le numerose ricerche che si sono concentrate su questo costrutto, spesso hanno puntato il focus su dimensioni trasversali, quali pensieri aggressivi e/o correlati fisiologici (ad es. aumento del battito cardiaco, temperatura corporea, pressione sanguigna, ritmo respiratorio, etc.) connessi con emozioni di rabbia o frustrazione.

Nonostante le difficoltà della ricerca, però, la relazione tra videogiochi ed aggressività dei giocatori è stata indagata da molti autori.


Quali sono le radici degli studi fino a qui condotti?


Il modello teorico che è andato per la maggiore fino al 2008 è il General Aggression Model (GAM), di Anderson e Bushman (2002): alla base di esso, troviamo la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1978), secondo cui i comportamenti aggressivi sarebbero acquisiti principalmente attraverso l’osservazione, il rinforzo e la conseguente imitazione di tali condotte.

Con l’esperimento della bambola Bobo (1961), Albert Bandura dimostrò empiricamente la sua teoria secondo cui l’imitazione delle azioni degli adulti sarebbe alla base delle condotte aggressive nei bambini: i giovani partecipanti furono divisi in tre gruppi, esposti rispettivamente ad un modello aggressivo (A), uno non aggressivo (B) e ad uno neutro (C) [vedi Fig. 1].


Ogni bambino appartenente ai primi due gruppi osservò individualmente il comportamento di un adulto nei confronti di Bobo, una bambola gonfiabile alta un metro e mezzo e in grado di recuperare il suo equilibro dopo essere stata colpita; nello scenario “A” gli adulti assumevano un comportamento aggressivo verso la bambola, che consisteva nel picchiarla o colpirla con un martello giocattolo; nello scenario “B” gli adulti si limitarono a giocare con Bobo, mentre i bambini del gruppo “C” non osservarono alcuna interazione con il modello. Successivamente, a tutti i bambini fu permesso di giocare nella stessa stanza.


Figura 1. Il comportamento di un bambino durante l'esperimento della bambola Bobo.



Ebbene, solo coloro che erano stati esposti al modello aggressivo, aggredirono fisicamente la bambola.


Di conseguenza, secondo il GAM, gli avatar (concetto che ho approfondito nel precedente articolo sulle techno-addiction) presenti nei videogiochi svolgerebbero la medesima funzione di “modelli” da imitare.

Il punto di forza di questo modello risiede in una base teorica solida e lineare, che permette di spiegare l’aggressività umana attraverso antecedenti e conseguenze. Tuttavia, negli anni, diversi studiosi del settore (Pinker, 2002; Ferguson et al., 2012) hanno obiettato che la semplicità di tale modello fosse anche una delle sue maggiori criticità: la quasi totale focalizzazione sugli script cognitivi (detti anche “copioni”, ossia apprendimenti di sequenze di eventi che tendono a ripetersi sempre secondo il medesimo schema) ha impedito di prendere in considerazione le variabili personali dei singoli giocatori, tra cui predisposizioni genetiche, tratti di personalità e vulnerabilità emotiva.


Proprio a partire da queste perplessità, è nato il Catalyst Model (Ferguson et al., 2008) che, a differenza del GAM, rimette al centro la soggettività dei giocatori: tratti motivazionali innati, fattori biologici ed ambientali (contesto di vita, ambiente familiare della persona) costituiscono, a seconda dei casi, fattori protettivi o fattori di rischio per lo sviluppo di condotte aggressive.


In una rassegna del 2013, Elson e Ferguson hanno analizzato venticinque anni di studi sulla connessione tra videogiochi e comportamenti violenti, evidenziando una serie di errori metodologici presenti nella maggior parte delle ricerche basate sul GAM, e presentando i risultati emersi dall’utilizzo del Catalyst Model, che possono essere riassunti nei seguenti punti:


  • Negli studi in cui non è stata fatta una distinzione tra modalità di gioco cooperativa e in solitaria/solo competitiva non è stato possibile evidenziare un aspetto fondamentale, che invece si è riscontrato nei successivi (Schmierbach’s, 2010): la cooperazione, indipendentemente dai contenuti violenti dei giochi, correla in misura significativamente inferiore con pensieri aggressivi, rispetto alle altre due modalità sopra citate.

  • Nonostante da diversi studi sia emerso che i contenuti violenti presenti nei giochi aumentano i pensieri aggressivi, sarebbe un grave errore generalizzare tale risultato: affermare che due giocatori presi casualmente ed esposti al medesimo contenuto metteranno in atto gli stessi comportamenti violenti significa non tenere conto delle loro differenze individuali, che potrebbero influenzare questo effetto in modo tutt’altro che marginale.

  • Tanti altri fattori, presenti nei videogiochi stessi, possono modulare l’effetto “esposizione” dei giocatori a determinati tipi di contenuti (Barlett et al., 2008): attualmente in quasi tutti i videogiochi in cui siano presenti scontri fisici è possibile diminuire, o anche eliminare completamente, la presenza del sangue; in particolare, sempre Barlett nel 2009, dimostrò che il realismo dei contenuti influenza significativamente le esperienze soggettive di rabbia ed ostilità.

  • Il fatto che in molti studi sia emersa una correlazione tra esposizione a contenuti violenti ed emozioni di rabbia o pensieri aggressivi, non significa che queste variabili siano strettamente connesse a comportamenti dello stesso tipo: alcuni scienziati hanno provato a misurare direttamente il livello di comportamenti aggressivi, ma non è semplice ottenere tale risultato in laboratorio (non solo per i motivi sopra citati, ma anche per ragioni etiche). Questo li ha costretti a ricorrere all’utilizzo di strumenti in grado di misurare non l’aggressività comportamentale pura, ma variabili connesse ad essa, sacrificando gran parte del rigore scientifico dei risultati emersi.

In conclusione, è evidente quanto la ricerca in psicologia sociale possa risultare particolarmente difficile e preda delle numerose variabili in gioco, tanto da essere facilmente vittima di fallacie metodologiche. Ma la potenza della ricerca è anche questa: continuare a indagare per correggere gli errori del passato e trovare nuove strategie per restituire risultati sempre più scientifici e misurabili.

Pertanto, al fine di supportare l’operato della ricerca, anche la collettività deve fare la propria parte. A tal proposito, Elson e Ferguson ci regalano un messaggio imprescindibile:

Semplificare, seguendo gli stereotipi e le idee suggerite dal “senso comune”, non è la strada giusta se si vuole fare chiarezza su una questione così complessa e dibattuta. 

Al contrario, è necessario sviluppare metodologie sempre più scientifiche, che permettano di tenere in considerazione nel profondo sia la soggettività e le variabili individuali dei giocatori, sia le specifiche caratteristiche di ogni singolo videogioco.

 

Bibliografia:

- Aronson E. (2006), “L’animale sociale”, Apogeo srl

- Elson M., Ferguson C. J. (2013). “Twenty-Fine Years of Reasearch on Violence in Digital Games and Aggression”, European Psychologist

- Przybylski A. K. (2014), “Who believes electronic games cause real world aggression?”, Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, Volume 17, Number 4

 

Sitografia


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